Dall'India con sudore - parte 5
Il proprietario dell'hotel è un uomo sulla cinquantina, Rajesh, che ricorda molto da vicino la figura di Osho, con una lunga barba e lo sguardo magnetico e distante; parla un discreto italiano. La seconda sera mi invita a cena da un suo amico contadino.
Ai tropici il Sole tramonta verso le 18:30, quindi quando partiamo è già buio. Percorriamo strade di campagna costituite da una singola striscia di asfalto in mezzo ai campi e agli alberi, prive di illuminazione, finché mi indica la luce di una lampadina nell'oscurità lontano dalla strada. Accosta e scendiamo; con la luce del suo smartphone ci facciamo chiaro lungo un sentiero finché non vedo emergere, nella pozza di luce di questa singola lampadina piazzata in cima ad un palo, una rudimentale struttura: una stanza in mattoni e intonaco non più grande di 15 metri quadri con annessa una veranda fatta di frasche sostenute da pezzi di tronco di piccoli alberi, il tutto sulla terra battuta al centro dei campi. In un angolo c'è della brace per terra pronta per cucinare delle verdure, ci sediamo ad una specie di tavolo ottenuto credo da un piccolo carro.
Mangiamo alcune verdure e delle uova, con il sale mischiato a coriandolo e zenzero, fumiamo, parliamo degli insetti che stanno danneggiando parte del raccolto, beviamo del buon rhum, poi il padrone di casa si addormenta sul tavolo, stanco della giornata.
Io mi aggiro un po' lì attorno, sotto il grande albero che di giorno fa ombra alla casa, respirando la pace di quel luogo sperduto e osservando con meraviglia costellazioni mai viste prima alla mia latitudine e longitudine.
Io mi aggiro un po' lì attorno, sotto il grande albero che di giorno fa ombra alla casa, respirando la pace di quel luogo sperduto e osservando con meraviglia costellazioni mai viste prima alla mia latitudine e longitudine.
Durante il viaggio di ritorno, percorrendo la buia strada di campagna con solo la luce dei fari a mostrare qualche metro davanti a noi, ad un certo punto Rajesh rompe il silenzio con il suo discreto italiano:
"Bello così, eh?"
"Bello, sì. Bello davvero."
Khajuraho è una cittadina di campagna nota solo per i suoi complessi di antichi templi indù, caratteristici soprattutto per le sculture erotiche che li contornano. Agli occhi di un occidentale vedere un tempio - simbolo di spiritualità, sacro e divino - ricoperto di sculture erotiche deve apparire uno stridente contrasto, ma questo è la conseguenza di 2000 anni di repressione sessuale; come questi templi dimostrano, le cose stanno all'esatto contrario: la vera spiritualità è molto vicina alla sessualità e nelle sue origini, perdute nei millenni, anche alla psichedelia da cui provengono le decorazioni visibili in queste foto.
La struttura dei templi infatti va molto al di là di questo elemento, rappresentando un'intera intuizione cosmica tipicamente psichedelica e, più precisamente, tipica della cannabis, sia nella forma di fiori di canapa che nella forma di hashish, quella più usata ancora oggi dagli asceti Sadhu, e tipica dei funghi magici, tratto che accomuna queste popolazioni alle popolazioni del centroamerica.
Ogni tempio rappresenta, dalla base verso la sommità, la gerarchia dello Spirito: al livello base motivi floreali, cioè la Terra e gli organismi, la Materia; al livello superiore persone che lavorano; poi coppie, famiglie e divinità; al livello sopra sesso esplicito e di gruppo, ad indicare la più alta forma di dissoluzione verso il divino, e da lì in poi motivi astratti e frattali, che ricordano per stile quelli degli Inca, dei Maya e in generale delle civiltà coeve del centroamerica, come si vede nel dettaglio qui sotto e in molti altri dettagli nelle foto precedenti e seguenti.
Queste strutture frattali e astratte si ripetono e si assottigliano mentre sfumano verso la vetta dove su tutto è poggiato un fiore di loto, simbolo della purezza divina, dell'Illuminazione, della rigenerazione e molto altro. Questa intera struttura concettuale è a sua volta ripetuta frattalmente fino ad un culmine imponente, da qui la forma d'insieme di questi templi.