Kierkegaard: individuo vs gregge



Traduco questo articolo apparso su un bel sito, BrainPickings.


La Verità è sempre nelle mani della minoranza [...] perché la minoranza è formata in genere da persone che hanno davvero un'opinione, mentre la forza della maggioranza è illusoria, formata da gruppi che non hanno un'opinione.

Articolo originale di Maria Popova


"Quando adotti gli standard e i valori di qualcun altro" scriveva Eleanor Roosvelt nella sua spettacolare meditazione su felicità e conformismo "rinunci alla tua coerenza [e] diventi, nella misura della tua rinuncia, meno di un essere umano." E comunque il conformismo non è soltanto una strategia di sopravvivenza ma anche qualcosa verso cui siamo indottrinati dalle istituzioni della nostra cultura.

Un secolo prima il grande scrittore e pensatore danese Søren Kierkegaard (5 maggio 1813 - 11 novembre 1855), celebrato come il primo vero filosofo esistenzialista e attivo sostenitore dei benefici di tenere un diario, valutava questa eterna tensione tra individuo e società. Scrivendo ne Il diario di Søren Kierkegaard - la stessa fantastica finestra nel suo mondo interno da cui abbiamo tratto la sua profetica psicologia del troll e del bullismo online — osservava come la nostra incapacità di una quieta contemplazione ci tagli fuori dal nostro [io] profondo e ci conduca ad adottare passivamente gli ideali di altri.




Denunciando la nostra tendenza a prendere i nostri valori dalle urla della folla anziché andare ognuno nel suo [io] profondo per ascoltare quella voce - un atteggiamento che lui considerava la radice della nostra infelicità - scrive:

Puoi benissimo mangiare la lattuga ben prima che abbia formato il cuore; però la delicata croccantezza del cuor di lattuga e la sua piacevole complessità sono qualcosa di molto diverso dalle foglie esterne. La stessa cosa vale per il mondo dello spirito. Essere troppo occupati ha questo risultato: l'individuo molto raramente riesce a sviluppare un cuore; dall'altra parte il pensatore, il poeta, o la personalità religiosa, che è riuscito a formare un cuore, non sarà mai popolare, non perché sia difficile capirlo, ma perché richiede un tranquillo e prolungato lavoro su di sé, un'intima conoscenza di sé, così come un certo isolamento.

Un anno più tardi, nel 1847, Kierkegaard rivisita la questione dell'individuo e della società:

L'evoluzione del mondo tende a mostrare l'importanza assoluta dell'individuo separato dalla folla [...] Ma finora non siamo andati molto lontano in concreto, anche se è risaputo in teoria. Questo spiega come mai la gente ancora consideri orgoglio e presuntuosa arroganza parlare dell'individuo a sé, quando precisamente questo è la realtà dell'umano: ognuno è un individuo a sé.



Tuttavia, dice, molti trovano troppo difficile vivere come individui ed optano invece per il conforto della massa:

La maggior parte delle persone diventano paurose quando ci si aspetta da loro che esistano come individui. Così la questione si ribalta su se stessa. Prima si pretende che tu sia assertivo, che pensi con la tua testa e che porti avanti la tua individualità, e il momento dopo, quando stai per tradurlo nella pratica, l'idea comincia a sembrarti troppo grossa, eccessiva per te.

Il conformismo diventa la nostra protezione contro questa sfida:

Ovviamente è più sicuro avere una solida posizione nella vita, un qualche incarico ufficiale che non ti richiede niente al di là di impersonare il ruolo [...] I più vivono vite decisamente troppo pavide, e per questa ragione arrivano a conoscere [il divino] così poco. Hanno posizioni permanenti, non devono mai metterci veramente il massimo impegno...




L'anno successivo ancora ritorna sull'argomento dicendo che la vera arroganza non è la coerenza con la propria individualità ma il negarla, negando così anche quella degli altri:

Ogni essere umano ha una realtà infinita, e l'orgoglio e l'arroganza stanno nel negare questo al prossimo [...] È un errore logico dire che 1000 persone valgono più di una [...] Il punto centrale sugli esseri umani è che l'unità "1" è il più alto valore; "1000" vale meno.

Due anni dopo, nel 1850, Kierkegaard esprime in modo commovente il ruolo vitale della minoranza come antidoto alla cronicità del pensiero unico della maggioranza:

La Verità sta sempre nelle mani della minoranza; e la minoranza è sempre più forte della maggioranza, perché la minoranza è sempre formata da quelli che hanno una vera opinione, mentre la forza della maggioranza è illusoria, formata da gruppi che non hanno una vera opinione - e che, il momento successivo, quando vedono che la minoranza è più forte, ne assumono l'opinione, che a quel punto diventa quella della maggioranza, cioè diventa una scemenza nelle sue mani, mentre la Verità si sposta a una nuova minoranza.

Riguardo alla Verità, questo mostro problematico, la maggioranza (il pubblico, la società, etc.) fa come diciamo che faccia il convalescente, che è in viaggio per recuperare la salute: è sempre una stazione indietro.




Due secoli prima Zadie Smith scriveva sul privilegio dell'auto-realizzazione, Kierkegaard è pienamente cosciente dell'elemento di classe in questo gioco tra minoranza e maggioranza, tra individuo e folla:

Voglio che la gente si sieda e prenda nota, così da non bloccarsi e sprecare la propria vita. Gli aristocratici danno per scontato che molte persone butteranno sempre via la propria vita. Ma non ne parlano; vivono nascosti facendo finta che tutta questa gente non esista, ed è questo che è ingiusto nello stato superiore degli aristocratici; per essere comodi loro non richiamano l'attenzione su niente.

Affermando di non essere lui stesso un aristocratico, lui - che si auto-definisce un "completo collage di opposti" - offre la sua soluzione:

Chiamerò l'attenzione della massa sulla sua stessa auto-mortificazione. E se loro non la vorranno vedere, gliela farò vedere anche con l'inganno. Cercate di capirmi - o, almeno, non capitemi male: non voglio colpirli [...] voglio costringerli a colpire me. Se lo faranno sarò riuscito a svegliarli, se mi daranno addosso probabilmente faranno attenzione, e se mi ammazzano sicuramente faranno attenzione, e così io avrò vinto su tutta la linea.



La logica di Kierkegaard in questa strategia è piuttosto umanistica nel considerare che cosa sia necessario per risvegliare lo spirito umano dal'ipnosi della massa:

[I singoli nella massa] non sono così corrotti da voler veramente fare del male, ma sono ciechi, e non sanno ciò che fanno. È solo questione di attrarli verso azioni decisive [...] La massa trionfa se l'individuo cede il passo e si fa da parte, così che non si renda mai conto di che cosa sta facendo. La massa non ha un vero punto di vista; così se gli capita di uccidere qualcuno si ferma, presta attenzione e torna in sé.

Più tardi aggiunge:

Nessuno vuole essere questa cosa così faticosa: un individuo; richiede fatica. Ma ovunque ci sono proposte di falsi surrogati: in pochi! Uniamoci in un gruppo, un'associazione, e a quel punto potremo farcela. In queste cose c'è la peggiore demoralizzazione dell'uomo.




Ma il tema più commovente arriva poco prima della sua morte, nel 1854, quando indica con profetica precisione la nostra moderna ansia dell'essere soli, mettendo in luce l'assoluta vitalità che scaturisce dal vivere della propria energia di individui:

La grandezza di un essere umano è: quanto a lungo e con che profondità riesce a stare da solo, privo dell'altrui comprensione.
Un uomo capace di sopportare di essere da solo per un'intera vita, e da solo in decisioni di eterna importanza, si colloca nel punto più lontano dal bambino e dalla persona-sociale, che rappresenta la versione animale dell'essere umano.

In una nota - a cui Anne Lamott potrebbe avere la risposta perfetta - aggiunge:

Testimoniare che l'uomo è spirito [...] col passare dei secoli, mentre l'abbrutimento patinato monta, diventa sempre più necessario, ma richiede anche sempre maggiore sforzo.

Il diario di Søren Kierkegaard è una lettura breve ma infinitamente ricca. Per un contrappunto a questo particolare estratto, vedi Norman Mailer sull'istinto del non-conformismo, poi rivisita Kierkegaard su la più grande fonte della nostra infelicità e perché l'ansietà aumenta la creatività anziché diminuirla.




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